DALLA PARTE DEL PROPRIETARIO: IL CORDOGLIO ED IL LUTTO PER LA MORTE DEL PROPRIO ANIMALE

Obiettivi

Per capire cosa accade nel momento dell’eutanasia e quale strategia adottare per affrontarla dobbiamo partire dal soggetto dell’intervento: che non è l’animale in quanto singolo bensì la relazione che si sviluppa tra quello ed il suo proprietario. Dare un buon servizio in quel frangente così delicato impone al professionista un profondo coinvolgimento empatico nei confronti del partner umano, tecnicamente definito come “Pet Loss Counseling”, consistente nell’assunzione dei ruoli di consulenza e di mediazione. L’eutanasia in quest’ottica assume la connotazione di pratica ad alta densità professionale, che riesce a configurarsi come “terapia del morire con dignità”.

Parlare di eutanasia è difficile, perché è difficile qualsiasi pensiero e discorso sulla morte. È difficile perché è doloroso e perché la morte rimane fondamentalmente, finchè non la incontriamo personalmente, un mistero. D’altronde un viaggio trasversale nella letteratura attesta l’esistenza di ben pochi contributi relativi alla pratica eutanasica in veterinaria: e sono molteplici le radici all’origine di questo silenzio. È un momento professionale che apre molteplici interrogativi, senza poter essere costretto nella sua dimensione meramente tecnica, che finirebbe per comprimerne il carattere emotivo, affettivo, relazionale ed etico. L’eutanasia non è solo un’iniezione: si inscrive in un sistema di significati, fantasie, aspettative di più protagonisti:

  1. il rapporto uomo-animale, così come si è creato nel corso dei secoli e nella sua attualità
  2. le rappresentazioni culturali della morte
  3. le rappresentazioni culturali dell’eutanasia da parte dei medici veterinari
  4. il proprietario in quanto individuo, nelle sue componenti di personalità, cultura, sesso, età, professione, stile di vita, relazioni famigliari…
  5. il veterinario nella sua veste professionale ed individuale, nel suo modo di intendere il mandato professionale e la mission del servizio che offre
  6. i fenomeni psichici relativi al lutto, nel proprietario ma anche nel professionista

Per capire cosa accade nel momento dell’eutanasia e quale strategia adottare per affrontarla dobbiamo partire dal soggetto dell’intervento: che non è l’animale in quanto singolo bensì la relazione che si sviluppa tra quello ed il suo proprietario. In questa osservazione si allineano e convergono discipline diverse, quali la zooantropologia, il Service Marketing e la psicoanalisi, sottolineando con forza che ciò che viene portato in ambulatorio è un affetto, cioè una relazione. Troppo spesso il veterinario misconosce questo profondo e complesso legame, o lo sottovaluta incorrendo nell’errore che storicamente ha compiuto la medicina nella società moderna, identificando la sua missione nella cura della patologia (il disturbo fisico) e trascurando l’esperienza della malattia, l’esperienza umana. Il proprietario ed il suo animale sono una coppia ed il legame che li unisce è molto profondo: è a tutti gli effetti un legame di amore. Che riguarda non solo l’uomo dal momento che molti studi oramai attestano la biunivocità e la reciprocità di questo scambio affettivo. Gli animali sono in grado di attivare operazioni cognitive ed emotive molto complesse, soprattutto i mammiferi, che sono dotati di un cervello “emotivo” sostanzialmente simile al nostro.

Quello che si stabilisce con l’animale d’affezione è un vincolo di attaccamento, con precise componenti affettive. È un legame basato sullo scambio e la reciprocità anche se è fortemente asimmetrico. Prova ne è la profonda differenza che intercorre nella relazione che l’essere umano può stabilire differentemente con un cane o con un peluche… Con i nostri animali si crea un vero scambio affettivo, si costruisce un mondo che è lo scenario della relazione, ricco e complesso, che riveste per l’uomo un’importanza immensa sotto il profilo psicologico. Si crea un dialogo, “battito cardiaco dell’esistenza umana” (Kaplan), che risponde al nostro bisogno di attaccamento e di sviluppare relazioni. Un rapporto che è vitale in quanto reciproco.
Pensiamo allora a quando questo legame si spezza. A quando il rapporto finisce non per volontà o sfinimento ma perché si verifica quell’eventualità disgraziata e blasfema in cui un polo della “diade” deve decidere di “uccidere” l’altro… È un’angolatura, questa, che certamente accentua le coloriture emotive del contesto ma che forse proprio per questo può costituirsi come una prospettiva migliore per avvicinarsi alle emozioni del proprietario, aggiungendo alcuni elementi per comprenderne il dolore, la disperazione, le titubanze, le ambivalenze…
La morte, qualunque morte, prima di tutto fa paura A tutti. Umilia il nostro sguardo, ci riconduce alla dimensione di creature, ci fa tornare noi stessi. C’è stato un tempo in cui la morte era sentita come una realtà domestica, familiare: faceva parte del mondo quotidiano, era un momento importante della vita collettiva. Oggi è una realtà oscena, da nascondere. Non è evento naturale ma sventurato, il risultato di un incidente, un guasto. L’individualismo ne ha privatizzato la forma riducendo la solidarietà ed i significati condivisi così come la sua “medicalizzazione” rappresenta un tentativo estremo di rimuoverla dal nostro piano esistenziale. Eppure la morte non è un fenomeno puramente individuale: coinvolge infatti il gruppo e la collettività, la società perché chiama in causa il modo in cui le culture “leggono” la morte e la integrano nel loro tessuto di credenze e comportamenti.
Più si rimuovono l’angoscia di morte ed i sentimenti panici, depressivi, inquietanti connessi all’esperienza della caducità e del limite più si perde la possibilità di entrare in contatto con le fondamenta della nostra sensibilità. Gli aspetti più istintivi e naturali della condotta umana sono schiacciati ed organizzati in modo artificioso. Le emozioni più forti ed i moti dell’animo più profondi vengono vissuti con un senso di vergogna di insicurezza, e giudicati dalla collettività quasi come manifestazioni di debolezza e di fragilità. L’imbarazzo di fronte alla morte e l’incapacità di esprimere autenticamente commozione e turbamento alimentano la necessità di occultare continuamente quell’evento doloroso. Allora la fuga davanti al morente esprime non soltanto l’angoscia di morte ma anche un più profondo desiderio di fuga da sé stessi, dalla sterilità di un’esistenza che proprio nei momenti più cruciali non trova valore. Galimberti ci ricorda che l’etimologia di “sentimento” rimanda all’esistenza di un contenitore, la mente, che tiene insieme (syn) gli opposti, senza espellere l’uno a vantaggio dell’altro. Per provare sentimenti occorre tollerare tutte le esperienze, le ambivalenze, il bene ed il male che coesistono l’uno a fianco dell’altro. Altrimenti c’è indifferenza, che è una forma di difesa. Morte e vita sono nell’inconscio coppie complementari: ecco perché la piena esperienza della vita implica l’accettazione ed il contatto profondo con la morte…
L’odierno occultamento della morte nasconde, in realtà, la nostra grande paura e smaschera l’impreparazione culturale di una società i cui membri si riconoscono incapaci di convivere con l’idea di finitezza e transitorietà, l’idea che ciascuno di noi è implacabilmente destinato a scomparire. La vicinanza della morte evoca risposte primitive, spesso caotiche e contrarie a tutte le aspettative. Ma attenzione allora ad applicare le categorie della razionalità in un processo che non può che generare irrazionalità. Ma che dire della morte del proprio animale da compagnia? Come accostare il discorso della transitorietà dell’esistenza umana alla scomparsa di un “semplice” animale? Si potrebbe obiettare in prima battuta che non si possono applicare alla sua morte le stesse categorie interpretative che guidano la comprensione del lutto nei confronti di esseri umani. Ma, inaspettatamente forse, questa obiezione non ha fondamento per due ragioni: innanzi tutto perché il LEGAME è un legame d’amore, e replica la facoltà vitale dell’essere umano dello stabilire rapporti affettivi di reciprocità. A ciò si aggiunge il fatto che il concetto di LUTTO in psicoanalisi ha un significato ampio, inerente qualsiasi esperienza di perdita del legame, persino a prescindere dalla morte reale. Noi sperimentiamo la morte sotto diversi aspetti: ogni perdita o commiato è in termini psicoanalitici e dunque interni un lutto. Nella vita ci accomiatiamo continuamente, e non solo dalla persone, ma anche da aspetti della nostra personalità o della nostra vita o da progetti. Molti proprietari sono sorpresi dall’intensità del cordoglio che vivono per la morte del loro animale da compagnia. Non c’è da sottovalutare che la perdita di un animale può riattivare altre esperienze di lutto della persona: ad esempio la morte del coniuge, che sembrava già superata. O quella di un figlio. Questo comunque capita sempre nel lutto: ogni nuova esperienza attiva la sensazione di perdere di nuovo tutte le persone che si sono perse in precedenza.

L’espressione “elaborazione del lutto” è di Freud, il padre della psicoanalisi, e risale al 1915. Si riferisce ad un lavoro psichico che comporta forza, movimento, fatica e spostamento di accenti, di attenzione, di priorità, di ottica. Il lutto implica la ristrutturazione di un nuovo rapporto con sé e con il mondo in seguito alla perdita dell’altro ed alla perdita di quanto di noi era legato all’altro. Non sono molti gli studi che hanno accostato e riflettuto sull’esperienza psicologica umana della morte: nemmeno nel campo della medicina umana. Quello che rimane il riferimento fondamentale è il pensiero di E. Küler-Ross nel suo lavoro di accompagnamento ai morenti, riconosciuta come esperta di fama mondiale rispetto alle emozioni ed agli atteggiamenti che caratterizzano il paziente, i famigliari ed il personale a contatto. Anche i rari contributi nel campo veterinario, tutti di origine anglosassone, utilizzano le sue categorie per descrivere i sentimenti dei proprietari, le reazioni che esibiscono e le strategie per affrontarle. Riportano così una sequenza comportamentale caratterizzata dapprima dal rifiuto e dall’isolamento, poi dalla collera (naturalmente difficile da tollerare da parte dei professionisti, perché si riversa pretestuosamente su di loro), infine dalla depressione. Se la persona ha avuto il tempo sufficiente per “elaborare” queste fasi ed è stata aiutata potrà allora approdare all’accettazione. È il segno che avrà cominciato a ristrutturare il rapporto con la sua bestia, con sé stesso e con il mondo.

L’elaborazione del lutto riguarda il processo lungo ed emotivamente difficile di guarigione da questa malattia dell’anima. Non è solo un distacco ed un abbandono ma anche una ricostruzione del nostro mondo interiore e del rapporto con la vita che conduciamo. Perdere un amore è un po’ morire, è veder svanire una parte di noi, della nostra esistenza, quella che esisteva assieme a quell’affetto. Ecco dove sta il significato VITALE delle nostre relazioni. La morte uccide una parte di noi: quella che amava quell’affetto. Non si potrà più essere uguali a prima. Il rapporto con l’animale crea un mondo comune solo ai protagonisti che lo creano e vivono, che l’esperienza della morte distrugge. Questo credo sia ancora più vero per la relazione con l’animale, perché è basata molto sul gesto e poco sulla parola, sulla comunicazione non verbale, molto più pregnante ed “antica”, profonda, regressiva. L’elaborazione del lutto dovrà allora consistere nell’elaborazione di un nuovo rapporto con il mondo: ciò che facevamo con l’altro, che eravamo con l’altro viene letteralmente seppellito. È la nostra morte attraverso la morte dell’altro.

Si rivela importante a questo proposito la sottolineatura di due aspetti che facilitano il processo di lutto, particolarmente delicati in tema di eutanasia animale perché spesso assenti, anche se per ragioni diverse. Ci si riferisce alla preparazione all’evento che protegge dal senso di confusione, e rende più capaci di accettare la realtà della perdita ed in particolare meno propensi alla collera. Le più gravi e prolungate reazioni di lutto si manifestano con maggiore probabilità, infatti, quando la morte viene percepita come improvvisa ed immatura, perché in quel caso non si riesce ad anticipare mentalmente, cognitivamente ed emotivamente lo stato di perdita. Mentre in relazione ai momenti che seguono la morte hanno grande incidenza i rituali di lutto ed inumazione, che riconoscono la grandezza dell’evento e offrono a chi ha subito una perdita un intervallo di tempo separato dalla vita normale. Il rito è lo strumento che la cultura, anzi, le culture hanno nel tempo elaborato per aiutare l’individuo ad affrontare momenti molto emotivi, che hanno un rilievo non solo individuale e sociale. Tutte le culture hanno, fin dai tempi più remoti, identificato e codificato riti funebri. Il rito rispetta il tempo interno del lutto e lo aiuta, dà significato e contiene l’emozione, è rassicurante; aiuta l’elaborazione ma soprattutto non lascia sola la persona.

L’esperienza di chi perde il proprio animale è nella società occidentale quella di una generale rimozione e banalizzazione dei suoi vissuti. Gli è negata la possibilità di esprimere ciò che prova perché la società non comprende e non accetta che si possa provare un legame profondo con un animale. Si vergogna, non sa bene come comportarsi. E così all’esperienza della perdita si aggiunge anche la solitudine, la sensazione di esclusione. Ma è anche loro impedito il ricorso a tutti quei riti che incanalano le mozioni e che aiutano il processo di lutto. Nessuno concepisce un congedo dal lavoro, nessuno accetta il pianto, manca un rito funebre socialmente condivisibile… La recente diffusione dei cimiteri per gli animali, o la possibilità di cremare, sono ancora poco conosciuti, non è facile reperire informazioni al riguardo… frequente è la ridicolizzazione. Non bisogna avere idee preconcette sul lutto, ancor di più sul lutto che segue la morte di un animale, codificando quanto sia opportuno o quanto convenga che duri. Quanto più emozionalmente siamo legati a chi si è perso più sarà intenso e lungo il lutto. Se si riesce ad immaginare a come gli animali accompagnino la vita di certe persone, a come ne scandiscano ritmi ed abitudini, a come ne regolino gli scambi sociali non si fatica a mettere a fuoco quanto e come si intrecci l’esistenza con la loro.

LE RAPPRESENTAZIONI CULTURALI DELL’EUTANASIA: IL RUOLO DEI VETERINARI

Le fonti veterinarie sono parche sul tema: offrono alcuni riferimenti di ordine farmacologico o metodologico, ma nulla SULLA MORTE. Eppure la comprensione dell’evento “eutanasia” passa anche attraverso quelli che sono i vissuti e le interpretazioni dei medici che ne sono gli esecutori materiali. I medici sono uomini e donne che vivono questo tempo, dunque sono soggetti alle letture interpretative culturali di cui si è appena detto, che relegano la morte ad un “rimosso collettivo”. I valori quali felicità, bellezza, giovinezza, efficienza fisica ed economica e lo sviluppo delle tecniche biomediche hanno avallato l’illusione dell’inesistenza delle barriere al controllo dell’uomo sulla natura, mutando il paradigma entro il quale è concettualizzata e vissuta la morte.
Per i medici nel concetto di cura è insito quello di successo e di guarigione. Non è lieve per un medico prendere atto di una simile impotenza: “non posso più fare nulla”. Si è formato professionalmente per guarire e risolvere le patologie ed i disturbi e considera istintivamente la morte altrui come un fallimento personale. I medici legano la loro arte alla salvaguardia della vita. Il Giuramento di Ippocrate ed il codice deontologico italiano sono concordi nel negare al medico qualsiasi possibilità di fornire al paziente un aiuto a morire. Il Giuramento in realtà è stato molto rimaneggiato e nel corso del tempo ha subito un processo di banalizzazione che ne ha travisato e stravolto profondamente il senso. Il Giuramento nacque da uno scrupolo diverso da quello della necessità di garantire una competenza tecnica: nacque per garantire un comportamento etico. All’epoca della sua codifica gli Asclepiadi si convinsero che il sapere non sarebbe bastato al dottore, che il pubblico avrebbe posto la differenza tra il medico “finto” e quello “vero” sulla base di criteri diversi da quelli meramente tecnici e professionali. Il Giuramento segna qualcosa di più della nascita deontologica professionale: rappresenta la piena coscienza delle responsabilità del medico nei suoi rapporti con il malato, la famiglia del malato e la società più in generale. Non era una dichiarazione manichea nei confronti della vita contro la morte… Era l’espressione ritualizzata di una filosofia di vita e di professione. Il corpus ippocratico infatti si occupa anche di tutto quell’insieme di pensieri e riflessioni che costituiscono da sempre una parte indispensabile dell’arte della medicina, una gamma completa di conoscenze al di là di quelle necessarie a comprendere i meri processi fisici della malattia.
Eppure molti medici odierni sembrano dimenticare questa tradizione, e si avvicinano ai pazienti con una lente scrupolosa ma circoscritta. Se tutto questo concerne l’area generale della medicina, a quella veterinaria si imputa una grave mancanza aggiuntiva: non esistono ricerche circa le reazioni del proprietario alla morte del proprio beniamino. Nonostante siano trent’anni che si sottolinea la complessità del rapporto tra l’uomo ed suo pet non si possiedono dati sul momento emotivamente più cruciale (e rivelante, probabilmente) di questo rapporto. Se ne può dedurre che probabilmente il veterinario troppo spesso cade nell’oblio di uno dei protagonisti, senza riuscire a consapevolizzare che ha sempre più a che fare con una diade, non con un singolo individuo. Il proprietario è un’entità sempre a margine dell’attività professionale, un missing che può costare assai caro…

Da questa mancanza di conoscenza ne discende la diffusa convinzione che l’eutanasia conduca invariabilmente o assai frequentemente alla perdita definitiva del cliente. Per di più si fa anche fatica a farsi pagare… Ecco che si “investe” poco sul momento.
È difficile stare accanto a persone che stanno male: si cerca di velocizzare i tempi perché la sofferenza del proprietario crea disagio e non si sa come affrontarla. Così come è pesante dover sopprimere una bestia, anche se ci si rende conto che è un atto pietoso nei suoi confronti.
Motivazioni e percorsi individuali e passione per la dimensione più relazionale del proprio lavoro consentono invece di elaborare una filosofia del proprio lavoro che includa anche la morte, invece di occultarla. Bisogna accettare di stare a metà tra il sentimento e l’accademia, possibilmente rimanendone equidistanti. “Il mestiere del medico mette in contatto con aspetti della vita – malattia, sofferenza, morte – che suggeriscono riflessioni che si spingono oltre la lama del bisturi per penetrare in quelle aree geografiche del pensiero che riguardano il nostro essere esseri umani. Conduce inevitabilmente a trascendere la dimensione tecnocratica se si vuole essere “una mano che pensa” (G. Macellari).
In un assetto ove la morte dell’animale da compagnia si trova ad essere sempre più “gestita” dal professionista, il medico non può fare a meno di reinventare uno scenario “vivibile” della morte, sia per l’animale morente sia per i vivi che gli stanno intorno, il medico stesso ed il proprietario.
L’EUTANASIA È UNA PRATICA AD ALTA DENSITÀ PROFESSIONALE, non priva di elementi gratificanti, almeno sotto il profilo affettivo. Certo deve essere frutto di valutazioni molteplici e deve connotarsi come una negoziazione tra veterinario e proprietario. Va “pensata”, fatto che implica la disponibilità a “pensare” la morte ed ad attraversare tutte le emozioni che essa implica. Possiamo fare a questo punto anche un riferimento al business ed al Practice Management: il 40% dei clienti cambia veterinario a causa di un’esperienza negativa all’atto del decesso del uso animale.
Ecco l’importanza della comunicazione, della cura del cliente, del coinvolgimento del cliente, con un’attenzione specifica a non separare la parte clinico-sanitaria della professione dal management. Se si vuole imparare a dare un buon servizio va intrapresa l’apertura ad un più profondo coinvolgimento emotivo, che la letteratura anglosassone descrive come “Pet Loss Counseling”. La scelta di questo comportamento dal punto di vista relazionale è l’assunzione dei RUOLI DI CONSULENZA (counseling) E DI MEDIAZIONE con importanti riverberi sull’elaborazione del lutto, grazie al bilanciamento di tre funzioni:

  • educazione (il parlare): dare informazioni sul processo in atto quando il cliente è pronto ed aiutarlo ad utilizzarle
  • supporto (l’ascoltare): è il sostegno, l’esserci, l’essere a disposizione
  • facilitazione (agire): chiedere, suggerire, rimandare e cercare di aiutarlo a prendere una decisione.

Una buona pratica di accompagnamento consente il contenimento di tutte le emozioni dei protagonisti (sensi di colpa, angoscia, senso di sconfitta, depressione), anche dei veterinari, migliorando il clima e la gestione del gruppo di lavoro. La morte è un trauma: la perdita è un trauma per tutti. A ciò si aggiunge uno stereotipo assai radicato da sconfiggere: quello che la sensibilità costituisca un difetto, che funzioni il model- lo forte e distaccato, quello, cioè, disumano.
Non è più questione di fuggire ma di sedersi, non di parlare ma di ascoltare. Di comunicare con il sorriso, una mano, lo sguardo. Il medico, prima condannato a guarire o a fallire, scopre allora un’altra filosofia della cura ed un altro senso della propria funzione: impara a “prescrivere sé stesso” secondo l’espressione del medico psicoanalista Balint. Non è il TO CURE, che è il curare per guarire ma è il TO CARE cioè il prendersi cura, condividendo pensieri e sentimenti col cliente, aiutandolo ad esprimere ciò che sente. Più il dolore è espresso più è condiviso e dunque sopportabile.
Se il veterinario crede in questo “servizio” e la sua è una disposizione autentica riuscirà ad aiutare più con l’atteggiamento che con le parole, vivendo l’eutanasia non come sconfitta. Pensando che lui per quella diade è davvero importante, se ne è preso cura per molto tempo, l’ha tutelata e protetta e pertanto nel momento della sua “trasformazione” DEVE essere lì.

Questa impostazione vede la medicina non al servizio della vita ma dei viventi: animali e persone, dunque anche al servizio dei morenti o di coloro che stanno accanto ai morenti. L’eutanasia in quest’ottica è una terapia del morire, del morire con dignità. Perché questo possa avvenire occorre però che i medici non abbiano paura di riconoscere che per quel paziente non c’è più nulla da fare e che non vivano la comunicazione del reale stato di cose come uno scacco personale, evitando perciò quegli interventi ed analisi che servono solo a creare l’illusione, prima di tutto in sé e poi nel proprietario, che si abbia ancora nel proprio bagaglio tecnico qualche strumento che possa essere usato. Quello è il momento di accompagnare il paziente alla morte ed il proprietario alla fine del rapporto concreto con il suo affetto. Ecco che la medicina viene a perdere carattere di sistematicità e diventa, primaria- mente, un gesto: un gesto di relazione.

Autore articolo:
Barbara Alessio

Psicologa e Psicoterapeuta Torino

Estratto articolo presente su  Sisca Observer.
Anno 7, Numero 1, Dicembre 2003

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