GATTI SENZA PARADISO

Obiettivi

In questo articolo si racconta, in modo volutamente molto soggettivo, l’esperienza dell’eutanasia dei gatti vista dalla parte della cliente, di chi porta gli animali dal veterinario. Si tratta però di molte esperienze, ripetute nel corso degli anni, e rielaborate, nel tentativo di connettere e dare senso a vari aspetti, emozionali, relazionali, affettivi, forse anche spirituali.

Nel 1981 ho portato tre gattini trovatelli – che avrei tenuto e cercato di sistemare – da un famoso veterinario di Milano. La loro età era di circa 50 giorni, erano vitali e allegri, privi di scoli oculari, rinite e simili, uno era particolarmente bello, tigrato scuro con il pelo semilungo, però avevano una chiazzetta di alopecia sulla fronte. Era tigna. Il veterinario mi disse che era incurabile e li soppresse con una iniezione di Tanax nel cuore, senza nessuna sedazione. Ricordo ancora l’urlo dei gattini. Non so se questa si possa chiamare “eutanasia”, che significa “buona morte”. Da allora ho sempre avuto in casa più di un gatto e il rapporto che si ha con un gatto “unico” o con più gatti è qualitativamente diverso, non è solo questione di quantità. Da allora mi occupo di gatti, senza essere di nessuna associazione, praticamente (li accolgo, li porto dai veterinari, li curo, li colloco o li rimetto in colonia e così via) e teoreticamente (scrivo articoli e libri). In questa attività mi è anche capitato di portare parecchi gatti a morire, miei e di altre persone, randagi conosciuti o anche sconosciuti, per esempio trovati investiti. Non ho mai portato cani o altri animali. L’eutanasia di un animale comporta problemi diversi, medici, morali, affettivi, economici, emotivi, per esaminarli tutti in modo approfondito servirebbe lo spazio di un’enciclopedia. L’aspetto cruciale di questa decisione, sempre difficile e angosciante, è capire con chiarezza che cosa è meglio per l’animale, in un momento in cui la chiarezza è poca. Sull’animale si scatenano infatti fantasie e proiezioni psicologiche non sempre gestibili. Per esempio, l’animale può diventare una parte di sé o il capro espiatorio della propria distruttività. Non so se sia compito del veterinario aiutare il proprietario in questa gestione emotiva, forse egli dovrebbe solo accettare che esiste tutta questa parte “non scientifica” nella relazione tra lui, l’animale e il proprietario. Molto veterinari ancora non si rendono conto di tutto ciò o lo rifiutano, considerando gli aspetti non strettamente medico-tecnici qualcosa di spurio. Per gli esseri umani l’eutanasia non esiste, ed è questo forse uno dei rarissimi casi in cui la situazione degli animali è migliore della nostra, ma quando arriva la morte non è il medico che si occupa degli aspetti psicologici e spirituali del dolore dei sopravvissuti, semmai il sacerdote o il rabbino, comunque un religioso, e/o la famiglia, in rari casi gli amici. Tornando agli animali, spesso non è evidente senza alcun dubbio che il gatto ha finito la sua vita oppure che la sua sofferenza è intollerabile (oltretutto, è pochissimo che in Italia ci si preoccupa del dolore degli animali e della sua gestione). Il proprietario si chiede: lo sopprimo perché lui non tollera più la situazione o perché io non tollero più la situazione? E questo può succedere per motivi diversi, perché io soffro troppo ma anche perché non ho più il tempo e/o l’energia per curarlo. L’accudimento dell’animale può infatti entrare in conflitto, per motivi pratici o emotivi, con il lavoro o altri impegni. Tra l’altro, in orario di lavoro, non sono previsti permessi per andare dal veterinario.
Nella scelta dell’eutanasia, i dati tecnici (come l’età, i parametri del sangue, la funzionalità renale ecc) aiutano ma non del tutto. Un esempio di questa situazione di incertezza può essere quella di un gatto in discrete condizioni di salute ma Felv positivo. La scelta dell’eutanasia mette in gioco importanti valori e concezioni personali, come il significato della vita e della morte, e non soltanto degli animali. Inoltre, può succedere di accorgersi di provare sentimenti poco accettabili, di cui ci si vergogna. Per esempio ci si rende conto di fare una gerarchia affettiva tra i propri gatti, di avere delle preferenze, di sentire in modo diverso il peso della morte a seconda di quale animale colpisce. Oppure ci si accorge che è più facile accettare la soppressione di un gatto malato che ha comportamenti fastidiosi, tipico “l’eliminazione inappropriata”. Un altro enorme problema è l’eutanasia – che sarebbe più corretto definire “soppressione eutanasica”, ma per il proprietario la giusta definizione non cambia la sostanza della cosa – di animali sani ma che hanno disturbi comportamentali (che talvolta sono causati dal comportamento inappropriato del proprietario).
A questi e altri motivi psicologici si associano quelli economici. Se la cura è troppo costosa – e quel “troppo” è diverso da persona a persona – si sceglie l’eutanasia. Sembra un comportamento squallido, ma è reale e razionale. Credo invece sia immorale non far fare l’eutanasia nascondendosi dietro la propria sensibilità. Ci sono proprietari che non fanno sopprimere il proprio animale perché non se la sentono di affrontare questa scelta e così lo lasciano soffrire e agonizzare, sentendosi però “buoni”. Oppure si giustificano con la retorica del “lasciar fare alla natura”.
Ci sono anche quelli che non fanno fare l’eutanasia semplicemente perché costa troppo (e l’eutanasia con lo smaltimento del cadavere è davvero costosa, ci sono persone che si fanno consegnare il corpo dal veterinario dicendo che lo seppelliscono in campagna e poi se ne sbarazzano pur di risparmiare almeno qualcosa). Anche quando la scelta dell’eutanasia è certa, indubitabile dal punto di vista medico, comunque è una grande sofferenza. C’è la perdita dell’animale, del suo affetto, della sua personalità, diversa da quella degli altri. Subentrano sensi di colpa, più o meno giustificati, per non essere stati bravi padroni, per non averlo curato abbastanza, per averlo sgridato troppo, per non avergli concesso qualche capriccio e così via.
Si ha inoltre la sensazione tremenda del tempo che passa, dell’inevitabiltà della morte propria e per tutti. Per certi aspetti, inoltre, la morte dell’animale è più drammatica di quella degli esseri umani. Noi infatti abbiamo qualcosa che rimane, in termini religiosi l’anima, in termini più laici le opere che abbiamo fatto, i ricordi che gli altri avranno di noi, il segno, buono o cattivo, che abbiamo lasciato sul mondo. L’animale muore e basta, è finito, è il nulla, questo è tragico e disperante. Qualcuno crede nella possibilità di reincontrare i nostri animali d’affezione nel Paradiso, ma è un’ipotesi piuttosto difficile da accettare. Per la morte dell’animale inoltre non c’è la possibilità di elaborare il lutto, cosa che richiede un contesto sociale. Non sto parlando dei cimiteri per pets, che mi sembrano anzi fastidiosi e inutili, ma della scarsa considerazione riservata a queste morti. Ricordo che ai bambini con le unghie sporche, listate di nero, si diceva: “Ti è forse morto il gatto?”, un modo di dire che esprimeva la totale irrilevanza della morte del gatto. Appena un po’ più significativa è la morte del cane, celebrata già nell’Odissea e in qualche opera letteraria (per esempio, nel romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera).
Il proprietario di gatti, anzi, ex-proprietario, che soffre, lo fa quasi sempre nella solitudine, nella incomprensione sociale, talvolta nel disprezzo da parte degli altri. Anche in questo la percezione della morte dell’animale è molto diversa da quella di un umano, dove comunque chi sopravvive è circondato dalla comprensione sociale, da riti religiosi o civili, da un’antica elaborazione collettiva, funerali, discorsi, condoglianze, riflessioni in saggi, film, romanzi e poesie. Mi accorgo che sto parlando di morte più che di eutanasia, ma per un padrone cosciente le due cose si equivalgono, difficilmente un gatto accudito muore senza eutanasia, a meno che vada sotto una macchina o cada dal settimo piano. Quale può essere il ruolo del veterinario in tutto ciò? Non credo sia possibile affibbiargli l’impossibile compito di capire il proprietario. Certo gli si può chiedere di usare un anestetico prima del Tanax e di non tormentare l’animale per trovargli la vena. A parte questi dati tecnico-medici, sono possibili comportamenti diversi. Conosco una veterinaria che non vuole che si parli di uccisione, di eutanasia, davanti all’animale, perché egli capisce, se non le parole, il senso di cosa sta succedendo. Ci sono veterinari che sbattono senza alcuna gentilezza il gatto sul tavolo di metallo, igienico ma così freddo e sgradevole, e parlano ad alta voce, e fanno rumore, “tanto ormai deve morire”. E c’è chi ha modi gentili e rispettosi anche in questa ultima operazione. C’è chi accetta, anche senza molte parole, la reazione emotiva, magari anche il pianto, del proprietario. C’è il veterinario che invece considera una stupida debolezza questa reazione. Cominciare a parlarne mi sembra già una buona cosa. Credo inoltre che bisognerebbe discutere anche dell’uccisione dei “non pets”, degli animali da reddito, dei milioni di bovini, maiali, polli, sterminati per motivi alimentari o sanitari. Esiste per loro qualcosa che assomiglia, anche vagamente, a una buona morte?

Autore articolo:
Anna Mannucci

Filosofa e gattara

Estratto articolo presente su  Sisca Observer.
Anno 7, Numero 2, Dicembre 2003

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